“Destinazione Freetown”: una migrazione al rovescio

In “Destinazione Freetown“, nuovo graphic novel della casa editrice Becco Giallo, Khalid è il protagonista immaginario di un viaggio di ritorno al proprio Paese, la Sierra Leone. Se l’Italia rappresenta la sconfitta del suo antico sogno, seguendo il suo percorso a ritroso esploriamo una terra affamata di futuro. Coautori ne sono Raul Pantaleo, architetto che ha partecipato alla costruzione di diversi ospedali d’eccellenza per Emergency, e l’illustratrice Marta Gerardi, entrambi membri del progetto collettivo Tamassociati. Lo sfondo reale del viaggio di Khalid sono infatti gli ospedali di Emergency realizzati in Sudan, Repubblica Centrafricana e Sierra Leone, che abbiamo modo di esplorare nel corso del suo tragitto.

Pubblichiamo due tavole che ci sono piaciute e a seguire una nostra intervista agli autori.

Il seguito su Voci Globali.

“White arrogance”: un consiglio di lettura


“Cosa dicono gli africani di quello che i bianchi pensano di loro?”
I numerosi viaggi condotti in Africa consentono alla giornalista-attivista Antonella Sinopoli di affrontare questo tema non solo con un’articolata visione critica ma adottando lei stessa il punto di vista nero sulla questione. D’altronde, chi scrive ha avuto modo di recarsi con lei nella Regione Ashanti in Ghana lo scorso inverno e ha potuto dunque sperimentare in prima persona la sua profonda osmosi con il continente.

Nell’ebook trovo alcune delle questioni predilette dall’autrice, dalla lotta ai pregiudizi alle questioni religiose, identitarie e di genere, le distorsioni della cooperazione allo sviluppo. L’opera raccoglie ampia documentazione multimediale, testi e audiovisivi di produzione africana che la rendono davvero interessante per chi voglia scoprire la realtà nera attraverso la sua stessa voce. Perché il potere che deteniamo noi “occidentali” significa anche controllo dei mezzi di comunicazione, ed è per gli africani tuttora scarsissima la possibilità di accedere al sistema globale dei mass media: per fortuna molte cose stanno cambiando dall’avvento di Internet.

Considerata la crisi economica che stiamo vivendo noi europei, mi vengono in mente due pregiudizi citati nel testo, il primo del mondo nero e il secondo del mondo bianco: “tutti i bianchi sono ricchi” e “tutti gli africani sorridono anche se non hanno nulla”, quest’ultimo affiancabile alla percezione preconcetta della pigrizia e indolenza dei neri. Chi ha viaggiato in Africa, non come turista, ha potuto verificare quanto presto si sveglino molti africani la mattina, e quanto dura e intrisa di sofferenza sia la loro lotta per la sopravvivenza: la necessità di lavorare molte ore al giorno, sia in campagna che in città, il coinvolgimento dei bambini in molte attività, il carico portato soprattutto sulle spalle delle donne. Chi scrive ne ha conosciute il cui volto esprimeva tutt’altro che un sorriso… Tuttavia, ciò che forse in effetti contraddistingue alcuni lati della cultura africana rispetto a noi è il senso comunitario – penso al concetto di ubuntu, che si potrebbe descrivere attraverso il motto “Noi siamo, quindi io sono”. Sarebbe importante se in Europa imparassimo ad assimilare questa visione, che ci consentirebbe di pensare a modelli economici alternativi maggiormente solidali.

Come rovescio della medaglia, forse non molti europei hanno idea di quanto sia intenso lo sviluppo economico e tecnologico in alcune aree dell’Africa: Samsung ha presentato in Kenya il primo modello di cellulare a energia solare; diverse importanti piattaforme tecnologiche diffusesi a livello globale, come ad esempio Ushahidi, sono nate in Africa; è vastissimo il mercato dei cellulari e degli smartphone, di cui gli africani sono pionieri a livello mondiale nel loro utilizzo come strumenti di mobile banking o per il commercio.

Non so valutare però se la forte capacità di crescita dimostrata negli ultimi anni possa davvero portare alla liberazione di questi Paesi: se c’è un tema che forse avrebbe dovuto trovare maggiore spazio nell’ebook, e che ritengo faccia pienamente parte della “white arrogance”, è l’atteggiamento cristiano/cattolico nei confronti del controllo delle nascite e dell’educazione sessuale, una posizione ideologica che non può che indurre gravi storture. Mi chiedo quale sarà la situazione di molti Paesi dell’area subsahariana (anche il Ghana) da qui a qualche decina d’anni.

Per concludere, consiglio questo ebook davvero ricco di spunti a chiunque voglia approfondire la propria conoscenza dell’Africa attraverso un’autentica visione dal suo interno.
Per acquistarlo si può accedere qui.

Un “obruni” a scuola

Al di là dell’apparenza autocelebrativa, questo video girato da Antonella Sinopoli riprende l’avvio di un gemellaggio tra la scuola materna di Adutwam, piccolo villaggio della regione Ashanti in Ghana dove mi sono recato in febbraio, e una scuola materna di Padova, la mia città. Non si tratta solo di un gemellaggio, perchè in realtà questi bambini del “kindergarten” locale non hanno un edificio tutto per loro ma sono attualmente ospitati presso la scuola elementare.
Stiamo dunque avviando una raccolta fondi per la costruzione dell’asilo. Chi fosse eventualmente interessato a partecipare non esiti a contattarmi al mio indirizzo email, per avere maggiori dettagli e chiarimenti. Grazie.

Diario dal Ghana

Diario dal Ghana, 10.02.2012 – 26.02.2012

22.02.2012

Ieri mattina abbiamo partecipato con Nicholas a un’assemblea pubblica presso un piccolo villaggio della zona: il villaggio, che non ha ancora beneficiato dei servizi di Ashanti Development, ha deliberato di inaugurare la collaborazione con l’ONG, segnalando inoltre le richieste di intervento piu’ urgenti.

Il tutto ha avuto luogo all’ombra di un grande albero al centro del paese, sotto il quale si sono radunate alcune decine di persone in rappresentanza delle 56 household (famiglie) del villaggio. Era presente anche il chief, o meglio la queenmother, perche’ in questo caso si trattava di una donna. Come ho gia’ scritto, qui le donne sono molto forti e assumono spesso ruoli importanti.

Al cuore dell’incontro la mappatura del villaggio, per indicare i servizi pubblici gia’ presenti e quelli di cui i diversi membri della comunita’ avvertono maggiormente il bisogno. La cosa interessante e’ che la mappatura e’ stata condotta in maniera collaborativa tra tutte le persone presenti e materialmente disegnata con un bastone sul terreno (cfr le foto). Ciascuno dei partecipanti all’incontro ha potuto esprimere la propria opinione in merito a quali nuovi servizi introdurre con maggiore urgenza nel villaggio: un bell’esempio di processo democratico. Nicholas ci ha raccontato che in molti villaggi vengono coinvolti nelle decisioni anche i bambini (che naturalmente sono in gran numero).

Oggi, tra le altre cose, ci siamo recati ancora al mercato di Mampong insieme a Diana, che doveva fare la spesa settimanale di alimentari per la struttura. Mi sento molto piu’ integrato nell’ambiente, e maggiormente in confidenza con le persone, pero’ e’ impossibile abituarsi al sole… E c’e’ da considerare che gli orari africani sono anticipati rispetto ai nostri (perche’ il lavoro ha inizio la mattina molto presto, soprattutto tra i contadini): anche oggi sveglia alle 6, pranzo alle 11 (!) e al mercato ci siamo recati dopo aver svolto un paio di altre commissioni alle…13.30, proprio nelle ore centrali…A un certo punto io e Antonella ci siamo separati da Diana che doveva completare la spesa, l’abbiamo aspettata presso una bancarella che ci ha ospitati (piu’ o meno all’ombra) per quasi un’ora: alla fine eravamo privi di forze, e il tro-tro che abbiamo preso per tornare ce le ha tolte proprio tutte…African life is a struggle, davvero, e per quanto loro siano senz’altro piu’ abituati a stare sotto il sole, rimanerci tutto il giorno non dev’essere per niente facile.

Ancora con riferimento alla religione (il Ghana e’ davvero un Paese molto accogliente in questo senso, sono ben tollerate tutte le chiese compresi i buddisti, gli induisti e molte altre sette), tema su cui servirebbe un intero libro, un capitolo andrebbe dedicato alle insegne degli shop che si incrociano lungo le strade. Moltissime riportano un nome ispirato alla Bibbia, come ad esempio “Psalm 44:5 Enterprise” o “Be glory to God Enterprise” o “The only word that will last is the one of God Enterprise”. A dir poco curiose…

Domani e’ l’ultimo giorno che spendero’ qui a Gyetiase. Venerdi’ mattina (ore 6…) Nicholas mi accompagnera’ a Kumasi, dopodiche’ mi rechero’ in corriera fino ad Accra. L’esperienza africana si avvia alla sua conclusione: arrivederci in Italia.


20.02.2012

Oramai sto da alcuni giorni al villaggio e comincio a conoscere qualcuno dei suoi abitanti. Ad esempio c’è Joyce, la sarta che abita qui vicino: a chi mi chiede se le donne africane siano felici risponderei che Joyce non ha l’aspetto di una donna felice. E non è la sola, da queste parti. Però è anche vero che vedo molte donne forti e sorridenti, a modo loro riescono a far fronte alle avversità.

Ieri molte di loro erano presenti alla messa, naturalmente tutte elegantissime: alla domenica grande festa qui a Gyetiase. Alcune volte resto ammirato per la forma con cui riescono a raggiungere certe età: ieri c’era una vecchina che avrà avuto 90 anni, ne sono sicuro, nonostante ne dimostrasse 20 di meno. Ma qui è così, quando alcuni anziani ti dicono la loro età rimani a bocca aperta. Suppongo che sia questione di dieta e stile di vita: qui le persone con la fibra più forte hanno la possibilità di vivere veramente a lungo.

Alla cerimonia era naturalmente presente anche il chief, avvolto per la festa in uno splendido tessuto Ashanti bianco e nero. E’ una persona onesta ma non è molto carismatico, per cui il villaggio fatica a trovare un percorso deciso di sviluppo. Invece il chief di Adutwam, un omone grande e grosso molto determinato, è riuscito a imporre insieme agli altri anziani del villaggio maggiore organizzazione, e i risultati si vedono. D’altronde l’organizzazione, anche qui ai villaggi, è fatta di persone. Alcune volte i chief sono un esempio in negativo: a Old Damang il capo villaggio ha rubato parte dei finanziamenti di Ashanti Development per costruirsi la propria casa, decisamente più bella di tutte le altre che ho visto. Ora l’ONG è in difficoltà, perché il chief non si può scavalcare, e il villaggio ha ancora bisogno di molti aiuti.

Tra i bambini, che sono tantissimi e spuntano sempre da ogni angolo per salutarmi, gridarmi “obruni obruni” e toccarmi come per essere certi che io esista veramente, c’è Felix. Ogni tanto passa qui alla struttura per salutare Antonella e me. Felix ha 11 anni ed è orfano di entrambi i genitori, vive con la nonna. E’ un ragazzo serio, vestito sempre in maniera molto curata ed è molto sveglio. Parla un inglese perfetto, è l’unico che abbia incontrato ad essere così bravo, rimani incantato ad ascoltarlo. E’ senz’altro un bambino che non ha goduto della propria infanzia, è molto più maturo dei suoi coetanei e anche di molti adulti. Spero che continui a farsi avanti come sta facendo così che, quando avrà l’età giusta, qualcuno possa aiutarlo a trovare la strada che si merita. Vorrebbe fare il dottore…magari, in questo Paese!

Oggi era il 1° compleanno di “Antonella”, una piccola a cui la mia amica Antonella fa da madrina: in sostanza le paga l’assicurazione sanitaria. Qui, per accedere ai servizi di sanità pubblica bisogna pagare questo tesserino e se non ce l’hai non hai diritto alle cure. E’ proprio tra i servizi di Ashanti Development il pagamento annuale dell’assicurazione sanitaria per chi non può permetterselo. Siamo andati alla festa con una candelina e due sacchi di caramelle che avevo comprato a Padova, un plumcake comprato a Mampong e alcuni palloncini comprati qui al villaggio. E’ stato senz’altro un momento di gioia ma i miei sentimenti sono misti a tristezza per le condizioni dei bambini e delle loro famiglie. Qui non sanno neanche cosa sia una festa di compleanno, e per un bel po’ ha regnato una fissità stupita sia da parte dei bambini che degli adulti. Poi, pian piano, la festa ha preso il via e i bambini si sono finalmente scatenati… soprattutto alla vista delle caramelle… “toffees”. Ma Antonella mi dice che se restassi qui più tempo, pian piano comincerei ad adottare uno sguardo più “africano”: lei ha vissuto l’evento con pura felicità. Assumendo il loro punto di vista, oggi è stata una giornata di grande festa, e domani si ricomincia, senza dare troppa importanza alle cose materiali.

Domani torniamo ancora una volta ad Adutwam per supervisionare i lavori della clinica in costruzione; nel pomeriggio daremo una mano a Nicholas, instancabile pilastro di Ashanti Development che ci accompagna sempre in giro con il suo pick-up, che ha bisogno di un po’ di lezioni per gestire il suo blog, dove descrive i progressi della sua comunità.

Ah, devo segnalare il blog di Antonella, attraverso cui si puo’ capire il suo punto di vista su questa realta’:
http://ashantide.org



18.02.2012

Weekend tranquillo e operoso qui alla struttura, a Gyetiase: molto lavoro al computer. Venerdi’ e’ stata un’altra giornata impegnativa, ora ci ristoriamo un po’. Penso che domenica, tra le altre cose, andro’ a vedere una messa, in una delle chiesine del villaggio che sta giusto di fronte a dove dormiamo noi.

In Ghana c’e’ l’influsso britannico per cui la gran parte della gente e’ cristiana di fede anglicana o metodista o avventista ecc… Mi dicono che la messa durera’ mezza giornata! Staro’ li’ soltanto un po’, per curiosare. Per la gente del villaggio la messa e’ anche un’occasione per fare festa, ascoltare musica, chiacchierare e stare insieme. Purtroppo, mi anticipa Antonella, suoneranno musica a un volume altissimo tutto il giorno…Le credo, inoltre la chiesa sta proprio qui davanti…spero di riuscire a lavorare, domani, perche’ devo continuare al lavorare al database e alla mappa online.

Anche venerdi’, a Gyetiase si sentiva musica tutto il pomeriggio: era giorno di funerale, e in Ghana le cerimonie funebri sono del tutto particolari, non ce n’e’ di uguali in tutta l’Africa. Servirebbe un libro per descrivere cos’e’ un funerale da queste parti. Una delle principali attivita’ commerciali e’ legata alla costruzione delle bare, che qui possono arrivare ad assumere forme grottesche: coloratissimi aeroplani, mucche, automobili ecc…Se hai sempre vissuto in Ghana e non hai mai preso un’aereo, magari vorresti fare un volo almeno al momento della tua morte, magari per raggiungere il paradiso…

In ogni caso, ieri pomeriggio siamo andati a curiosare nel centro del villaggio, dov’era in corso la “cerimonia”. Bisogna immaginarsi una piazza abbastanza larga di terra rossa, in mezzo alcuni begli alberi africani con i rami bassi, e sotto gli alberi…un sacco di giovani e bambini che ballavano con grande sensualita’ musica da discoteca davanti a diverse casse di dimensioni enormi!! Cosicche’ tutto il villaggio potesse sentire… hanno davvero uno strano modo di celebrare i funerali. In realta’, anche questo rito e’ un’occasione per ritrovare parenti o amici che abitano lontani e anche, perche’ no, mangiare…
Venerdi’ mattina siamo andati a comprare delle stoffe che si chiamano kente: in Italia tenteremo un mercatino per finanziare i progetti di costruzione dell’asilo e di completamento della clinica ad Adutwam. Da queste parti sono bravissimi a lavorare al telaio, i tessuti Ashanti sono tra i piu’ pregiati di tutta l’Africa. Con i tessuti , in cotone o seta artificiale, producono borse, sciarpe, vestiti, zainetti ecc…ecc…Abbiamo dovuto raggiungere un paesino che si chiama Bonwire (taxi + tro-tro + 2 taxi…), dove si conserva l’antica tradizione del telaio: e’ interessante sapere che i tessitori sono tutti uomini, non donne. Una volta il fatto che una donna lavorasse al telaio per produrre il kente era un vero e proprio tabu’ , ora non lo e’ piu’ e ci sono donne che lo fanno, ma per la gran parte sono uomini.

Questo e’ perche’ nell’Ashanti non c’e’ una netta differenziazione tra le attivita’ condotte da uomini e donne: entrambi possono -anche storicamente era cosi’- svolgere le attivita’ agricole. Le donne non dovevano restare necessariamente sempre in casa a gestire i bambini. C’e’ da considerare il fatto che qui le donne sono molto forti e hanno un ruolo dominante nella societa’. Non so quanti conoscano la storia dell’impero Ashanti (su wikipedia c’e’ una bella pagina) la cui etnia, per essere precisi e’ quella Akan. Gli Akan sono stati, insieme agli Zulu e a pochissimi altri, l’unico clan che e’ riuscito per qualche tempo a contrastare seriamente gli inglesi nell’era coloniale. Stando qui ho scoperto una cosa interessantissima: uno dei condottieri akan che si ricorda aver tenuto testa con il suo esercito ai colonizzatori era…una donna!! Una Giovanna d’Arco o amazzone africana… Devo approfondire questa storia. Quando torno ad Accra voglio andare al National Museum, chissa’ se nel bookshop c’e’ qualche libro interessante. Comunque il fatto che le donne siano fortissime lo riscontri anche oggi: quando vedi certe donne contrattare al mercato, c’e’ da prendere paura…Tough and strong women, dicono qui delle donne Ashanti…poveri uomini…


16.02.2012

Il viaggio e le esperienze continuano.

Ieri siamo andati ad Old Damang, un villaggetto disperato non lontano da Gyetiase. Ci siamo recati li’ perche’ i coordinatori di Ashanti Development hanno chiesto ad Antonella di girare un video. La storia e’ straziante: la richiesta del video proviene da un’anziana signora irlandese, Daire, che sta morendo di cancro, le resta poco tempo. Nel corso della sua vita ha concesso molti finanziamenti alle comunita’ di quest’area, aveva donato persino i soldi ricevuti in occasione del suo secondo matrimonio. Quelle donazioni sono state principalmente usate per concedere microcredito alle donne di Old Damang: ora possono condurre piccole attivita’ di coltivazione o piccolo commercio. Una di queste donne produce il kenkey, palle di mais fermentato che qui vengono mangiate regolarmente ma richiedono un trattamento lungo. Questa donna si ricorda sempre di Daire, perche’ dice che senza il suo aiuto non sarebbe sopravvissuta. Ha 7 figli, che ieri abbiamo conosciuto. Nel video ha ricordato la sua benefattrice Daire e l’ha ringraziata ancora una volta. Dopo abbiamo condotto altre interviste nel villaggio, la maggior parte rivolte ad altre donne che hanno beneficiato del programma di microcredito.

Rispetto a Old Damang, Gyetiase e’ avanti anni luce: qui ci sono le latrine, i pozzi, le cisterne d’acqua, le scuole, la clinica, e le case sono quasi tutte in ordine. A Old Damang ci sono case che cadono letteralmente a pezzi, o gia’ crollate, e la gente ci vive dentro. Vive dentro case che sono ormai aperte, con la paura che di notte possa crollare un altro muro. Sicuramente Ashanti Development vi sviluppera’ degli interventi in futuro.

Da Old Damang ci siamo recati a piedi, attraverso il bush, fino a Mampong, la cittadina piu’ importante dei dintorni, dotata di un grande mercato. Ci ha guidati Diana: lei e’ tra le poche persone con uno stipendio fisso pagato da Ashanti Development: custodisce la struttura, ci prepara tutti i giorni pranzo e cena, oltre a molte altre attivita’. Ed e’ sempre la nostra mediatrice quando ci rechiamo nei villaggi. Ieri ci ha accompagnato fino a Mampong. Comincio a riconoscere alcuni alberi da coltivazione: il mango, l’avocado, l’anacardio, il cacao, la manioca ecc.. Attraverso la boscaglia sono numerosi anche i termitai, alcune volte davvero imponenti. Alcune volte ti imbatti in alberi maestosi.

Ma dopo un’ora di cammino fino a Mampong il sole ci ha piegato tutti, anche Diana che e’ di qui. Ci siamo fermati a un bar, non dissimile dai nostri, un cortile sotto il tendone con alcuni tavoli: ho assaggiato la Star, la birra ghanese prodotta negli stabilimenti di Guinness Ghana – e’ una lager, buona. Al mercato ero stanchissimo, per il sole, per un mal di stomaco che mi portavo dietro (oggi sto meglio) da un paio di giorni (forse il Lariam), e per il traffico di persone travolgente, con tutti i suoi suoni, rumori, colori, odori…alcune volte i canali delle fognature a cielo aperto ti colpiscono all’improvviso. Ma non mancano neppure i profumi, e spesso i cibi venduti sulle bancarelle sono molto attraenti. Ho assaggiato delle polpette di fagioli buonissime! Devo provare le chips di plantain (il platano, la banana gigante) fritte, sembra che siano ottime.

Tornati a Gyetiase ci ha raggiunto Esther, un’infermiera stipendiata da Ashanti Development: ci ha portato tutte le schede-paziente della clinica oculistica, sono migliaia (dal 2006), e’ impossibile pensare di caricarle in formato elettronico, dovremo decidere con i coordinatori come affrontare la questione: forse e’ utile caricare solo le schede storiche relative alle malattie piu’ gravi come la cataratta o il glaucoma. Pare che il glaucoma sia causato dall’esposizione al sole, aggravata dalla polvere sollevata dall’harmattan, il vento che soffia dal Sahara e arriva fino in Ghana durante la stagione secca, che dura alcuni mesi.

 –
Oggi una giornata molto produttiva: siamo tornati ad Adutwam, dove abbiamo raccolto i disegni fatti dai bambini dell’asilo (avevamo lasciato un po’ di tempo agli insegnanti). Siamo arrivati alle 8.00, quando i bambini si raccolgono per la preghiera. Sara’ veramente educativo per bambini e genitori vedere il video che abbiamo girato 😉 I bambini tutti disciplinati in gruppi secondo le classi, con il direttore che faceva il controllo igienico a tutti…denti, unghie, ecc..Qui la disciplina e’ molto diversa rispetto a come funziona da noi: c’e’ molta piu’ severita’, e in alcune scuole so che usano anche il frustino. E’ anche vero che i bambini africani sono soggetti molto piu’ difficili dei nostri, pero’ quando assisti a certe scene rimani perplesso, non siamo piu’ abituati a questa severita’. Alla clinica hanno cominciato a installare gli infissi.

Da Adutwam ci siamo recati via tro-tro (e’ un taxi collettivo, un minivan con licenza) fino a un paesino dove vive Amoah. E’ un ragazzo di 24 anni che vuole fare il citizen journalist, scrivere online, insomma, e ha gia’ pubblicato un paio di articoli sulla nostra pagina Voci Globali. E’ un ragazzo serissimo, di professione fa l’insegnante ma vorrebbe fare l’infermiere. Oltre a questo, ha molte idee sulle cose che non vanno nel suo paese, in termini di diritti umani, sviluppo sociale, ecc… Gli abbiamo portato un laptop con tutti gli accessori e finanziato l’acquisto di una chiavetta Internet con abbonamento per 2 mesi. Poi si arrangera’, il costo mensile dell’abbonamento flat e’ di 15 Ghana cedi, circa 7 euro. Abbiamo dovuto produrgli un tesserino con il nostro logo, la sua foto e la scritta “citizen journalist”…Altrimenti in certi posti non riuscirebbe a entrarci per condurre interviste…siamo in Africa…Abbiamo scommesso su di lui, speriamo che sia responsabile e soprattutto costante. Abbiamo cercato di fargli capire quanto sia importante che si impegni veramente in questo piccolo progetto, anche perche’ pare davvero una persona intelligente e potrebbe crescere moltissimo. Ci sono blogger ghanesi che sono conosciuti a livello mondiale, questo Paese e’ uno dei piu’ evoluti di tutto il continente anche in questo senso. Speriamo che conduca la sua partita con impegno e serieta’.

Anche il ritorno in tro-tro…Abbiamo dovuto prenderne due, perche’ al ritorno non c’e’ il diretto per Mampong. Per fare 20 km ci abbiamo messo piu’ di un’ora. E’ impossibile capire se non si viene qui. Se non e’ pieno come un’uovo non si parte: se non c’e’ musica a palla dall’autoradio non sono contenti. Quando accelera attraversando lunghi rettilinei ti esce spontanea una preghiera: mi sa che qui gli unici componenti soggetti a manutenzione sono solo il clacson e la radio…funzionano sempre…ma per il resto e’ un disastro. La prima causa di morte in Ghana sono gli incidenti stradali, ancor piu’ che la malaria…Ah! Anche ieri pomeriggio avevamo preso un tro-tro per tornare da Mampong a Gyetase: ci ha messo mezz’ora per fare tre km (va beh che fuori dalla citta’ la strada e’ di terra rossa e molto sconnessa), sono caduti giu’ dal bagagliaio posteriore per due volte alcuni sacchetti della spesa…la prima volta un sacchetto con dello yam che un bambino ci ha riportato correndo. La seconda volta c’era la nostra spesa….e dentro c’erano le uova che aveva comprato Diana……Va beh, l’unica cosa che restava da fare era riderci su, ed e’ cio’ che abbiamo fatto io e Antonella…

Adesso siamo qui alla struttura, stiamo raccogliendo dei dati relativi alle strutture fornite da Ashanti Development per quest’area – pozzi, latrine, cisterne d’acqua, cliniche, scuole, microcredito ecc…La mia idea e’ di realizzare uno strumento web molto semplice, una Crowdmap dove si possa avere un’immediato colpo d’occhio alle attivita’ realizzate qui.

E domani si ricomincia.




12.02.2012

Dopo un lungo viaggio, venerdì scorso sono arrivato ad Accra. Lì ho speso l’intera giornata di sabato, ospitato presso una famiglia che accoglie i volontari di Ashanti Development di passaggio. Ho avuto modo di vedere com’è una tipica giornata lì, accompagnando Mr.Kwabena (il papà) mentre portava i figli a scuola o sua sorella a fare la spesa al mercato.

Il giorno successivo abbiamo preso una corriera che ci ha portato nell’interno del Paese: abbiamo attraversato diversi villaggi e città molto popolosi. Molto verde, però l’antica foresta non c’è più: la gente è dedita alle coltivazioni (manioca, yam, palme da olio, cacao ecc…) e inoltre tagliano il legno per le costruzioni. Ogni tanto spuntano degli enormi e bellissimi alberi africani, dà l’idea di cosa dovesse esserci un tempo. Per non parlare degli animali, tutti scomparsi.

La sera di domenica sono arrivato a Gyetiase, il paesino dove dormo, che si raggiunge dopo aver attraversato alcune colline e il bush, è in una zona abbastanza remota, in ogni caso a qualche decina di chilometri da Kumasi, che è una grande città (3mln), il maggiore mercato del West Africa (devo ancora visitarlo).

Gyetiase è davvero un paesino di campagna, con le capre e le galline dappertutto, terra rossa e polvere, tanti bambini che ti inseguono chiamandoti “obruni, obruni” (bianco). Ringrazio la mia amica Antonella, che qui è di casa, la quale mi ha presentato a diverse famiglie e personalità del villaggio. Qui la prima attività da fare è la presentazione con il “chief”, il capo del villaggio: l’organizzazione qui è così, basata in parte sulla gerarchie tradizionali, non c’è il sindaco… Lunedì mi hanno portato da lui e, attraverso un mediatore che traduceva dall’inglese al dialetto locale Twi, gli ho spiegato che cosa vengo a fare qui. Sempre lunedì ho avuto modo di conoscere il direttore della junior school locale, una persona davvero speciale. Qui gli insegnanti pubblici sono pagati pochissimo, quelli delle materne meno di tutti ma anche quelli delle elementari fanno fatica: generalmente sono tutte persone molto magre…ma sono anche persone molto entusiaste, il loro talento è l’insegnamento e vi si dedicano con grande passione.

Oggi è stata una giornata straordinaria. Da Gyetiase ci siamo recati via jeep (sentieri di terra rossa attraverso verdi colline cosparse di banani e mille altri tipi di alberi africani) fino al villaggio di Adutwam (anche questo seguito da Ashanti Development) che sta ai piedi di una montagna considerata sacra. Anche lì, la prima cosa che abbiamo fatto è stata presentarci al chief, una persona molto capace e autorevole: l’incontro è stato “da film”, tra le capanne dove si aggirano le capre e le galline ma con un formalismo del rituale dal quale capisci che stai vivendo un momento importante. Il benvenuto viene dato con un rito secondo cui le donne vengono a salutarti e stringerti la mano dicendoti “Akwaba” – “Benvenuto”. Ci siamo quindi addentrati nel centro del villaggio al seguito del chief e di alcuni altri anziani: pareva una parata reale… Antonella lì è conosciuta e molto apprezzata, è considerata alla pari del capo villaggio per quello che sta facendo per la comunità.

Ad Adutwam è in corso di costruzione (molto rapida) un’ospedale, oramai sono arrivati alle porte e le finestre del piano terra, dopodiché cominceranno a costruire il primo piano e poi il tetto. Oltre che per vedere come va con l’ospedale, che sarà operativo in luglio, ci siamo recati qui perché in questo villaggio i bambini della scuola materna non hanno una loro struttura, vengono ospitati nelle aule della scuola elementare. Con Antonella abbiamo l’intenzione di raccogliere fondi per la costruzione dell’asilo. Prima di partire per il Ghana, le maestre della scuola materna dei miei figli hanno fatto fare a tutti i bambini della scuola dei disegni ispirati al tema dell’Africa. Li abbiamo portati fino a qui, e oggi li abbiamo consegnati ai maestri della scuola, chiedendo loro di fare altrettanto con i loro alunni. E’ stato un momento bellissimo: ho dovuto tenere una piccola lezione sull’Italia, spiegandogli su una cartina dove sta, e come viviamo – con la traduzione del direttore in Twi. Dopo abbiamo disegnato con i gessetti le bandiere del Ghana e dell’Italia, fatto molte foto e video, e alla fine i bambini si sono messi a disegnare con l’aiuto dei maestri, tutti bravissimi ed entusiasti. Purtroppo uno dei bambini a un certo punto è stato portato via in braccio, dormiva ma era molto sudato e senza forze, probabilmente la malaria. Però è stato un momento emozionante ed entusiasmante, sono indescrivibili le sensazioni vissute assieme a tutti quei bambini. Ora speriamo di poter contribuire al loro futuro.




Tutte le foto sono mie o di Antonella Sinopoli.

Voci globali e informazione condivisa

Il ruolo dei citizen media dalle rivolte del Nord-Africa al Giappone


Venerdì 1 aprile 2011 ore 15.30

Ordine dei Giornalisti Emilia Romagna

Strada Maggiore 6 – Bologna


Dalle recenti rivolte nei Paesi arabi al disastroso terremoto in Giappone, sono i cittadini a battere sul tempo i mass-media, innescando nuove dinamiche comunicative e dando linfa all'attivismo e alla partecipazione sul campo. Global Voices, community che rilancia e traduce le produzioni dei cittadini-reporter in tutto il mondo, e la sua estensione italiana, Voci Globali, insieme agli esperimenti di editoria sociale digitale di Quintadicopertina.com, puntano ad aggregare e amplificare le voci dei netizen e dei social media. Un passaggio fondamentale nell’odierno panorama informativo e culturale, per riaffermare la partecipazione e il diretto coinvolgimento dei singoli al divenire della società civile anche in Italia.

In questo nuovo contesto esiste, e in che misura, una forma di collaborazione e di scambio tra citizen journalism e informazione mainstream? Quali i contributi reciproci, e come rilanciarli per favorire la partecipazione diretta dei cittadini al "fare informazione" nell'era digitale?

Un incontro aperto al pubblico, per riflettere e discutere su tali questioni, gentilmente ospitato dall’Ordine dei Giornalisti dell’Emilia Romagna nella propria sede.
 

Intervengono:

Antonella Sinopoli (Global Voices, Voci Globali)

Maria Cecilia Averame (Quintadicopertina.com)

Antonella Beccaria (Il Fatto Quotidiano, Emilia Romagna)

Porterà un saluto Gerardo Bombonato, presidente dell’Ordine dei Giornalisti Emilia Romagna
 

Contatti: italiano@globalvoicesonline.org

Dettagli e adesioni: http://www.facebook.com/?ref=home#!/event.php?eid=211216182228173


* * * * * * *

Voci Globali è un esperimento di giornalismo partecipativo, mirato a rilanciare voci e opinioni spesso dimenticate dall'informazione mainstream. I temi principali sono Paesi in via di sviluppo, violazione dei diritti umani, giustizia sociale, tutela delle minoranze, rispetto della libertà di espressione, cyber-attivismo. http://vociglobali.it

Global Voices Online è un progetto internazionale senza fini di lucro attivo da oltre 6 anni, mirato a far conoscere e amplificare laconversazione globale che avviene online — in particolare rispetto a Paesi e temi non-occidentali. Le decine di articoli e notizie quotidiane di Global Voices Online vengono poi tradotte e localizzate in 17 lingue, incluso l’italiano http://it.globalvoicesonline.org

Quintadicopertina nasce nel maggio 2010 come ambito destinato alla scrittura e alla comunicazione digitale. Sta preparando una collana di editoria sociale digitale per sostenere la condivisione di informazioni, esperienze, storie e narrazioni. Lavora in collaborazione con editori, giornali, enti impegnati in attività di sensibilizzazione e informazione. http://www.quintadicopertina.com

 

Blogging on the Nile

Da Al Jazeera – Witness un bel reportage sull'esordio del social networking in Egitto:

"From Tahrir Square in Cairo to the corniche in Alexandria, all over Egypt thousands of people have taken to the streets to protest against Hosni Mubarak's government.

Blogs, twitter, Facebook and mobile phone footage have all played some part in mobilising the crowds and getting messages to the wider world. And this despite a draconian crackdown on media and an unprecedented blackout of the internet by the authorities.

In today's Witness we look back at a film made four years ago, when bloggers were relatively few and new in Egypt. They claimed the Egyptian government was nothing better than a dictatorship, using torture, intimidation and corruption to maintain its hold on power, and they were attracting a growing audience.

Back then they were already making waves – and paying a high price. But they were sewing the seeds of today's multi-media uprising.

We are joined in the studio by two guests who have been following the development of media in Egypt. Sharif Nashashibi is the chairman and co-founder of Arab Media Watch, an independent, non-profit watchdog, set up in 2000, to strive for objective coverage of Arab issues in the British media. And Ramy Aly is a PhD student at Sussex University, researching Arabs in London, and has also written about social networking in Egypt. He also had experience of blogging in Egypt back in 2006 and 2007."

Anche il vescovo che da sempre porta i doni ai bambini aveva la pelle nera, come i bistrattati extracomunitari

Di Paolo Rumiz, Il Piccolo, 6 dicembre 2010.

Ho chiesto a San Nicolò – quello triestino con una “”c” sola – di portarmi un regalo. L'affossamento della legge-truffa che ha chiesto ai clandestini di regolarizzarsi per poi espellerli sommariamente. La vergogna che, per capirsi, ha provocato la protesta delle gru in mezza Italia. Per questo ieri ho festeggiato il santo con gli africani di Trieste. Un San Nicolò nero, perché il nostro – in quanto vescovo di Myra – era un “sudicio” dell'attuale Turchia. Un “abbronzato” direbbe Berlusconi. Quando da adulto lo scoprii scuro di pelle, fui felice. Tutto quadrava. Capii perché avevo odiato fin dall'inizio Babbo Natale, caricatura ariana del nostro, chiamata abusivamente Santa Klaus, per infinocchiare i babbei. Già all'asilo, quando ci fecero entrare in classe quel grassone un po' avvinazzato vestito di rosso Coca-Cola, tentai di strappargli la barba finta e protestai al punto che la maestra dovette convocare i miei imbarazzati genitori. Eh sì, il mio San Nicolò era un'altra cosa. Non aveva quella pancia, non aveva il naso rosso, era un poverello, una specie di San Giuseppe; veniva con l'asino e la bisaccia, non con le renne; la sera, perché portasse i suoi doni, bisognava lasciargli una pagnotta, un po' di formaggio, un bicchier di vino e il fieno per il ciuco. San Nicolò poteva essere siciliano, egizio, turco, afghano, etiope. Ma non finnico, non tedesco e tanto meno americano.

[L'articolo continua qui]

“Foolish Flower”: tra attualità e poesia dal Madagascar

Questo post riprende in parte l’intervento del 7 dicembre scorso di Lova Rakotomalala dal suo blog The Malagasy Dwarf Hippo dal titolo “Vonikazo adaladala” [Foolish Flower], ispirato a un componimento del poeta malgascio Georges Andriamanantena, noto come Rado.

A pochi giorni dalle elezioni referendarie che hanno approvato il progetto di modifica costituzionale proposto dal Presidente Andry Rajoelina – grazie al quale costui potrà restare nella carica assunta con un golpe nel 2009 – così si è espresso il blogger malgascio espatriato:

Travolto da un tornado di cablogrammi, sgradevoli paralleli tra le vicende post-elettorali in Costa d’Avorio, Haiti e Madagascar, mi è sembrato ormai il momento giusto per un po’ di… poesia.
Quella che segue è la traduzione di una poesia malgascia di Rado, ovvero Georges Andriamanantena, scomparso nel 2008 e recentemente raggiunto lassù da un’altra leggenda della letteratura malgascia, Elie Rajoanarison.
Ecco il mio misero tentativo di tradurre un capolavoro che è stato anche messo splendidamente in musica dal duo di Aina Quash e Eric Manana. E’ dedicato a tutti gli insensati speranzosi che, giù a casa, continuano a sperare, continuano a provarci, continuano a credere di poter riuscire un giorno a raddrizzare le cose. E magari hanno proprio ragione.

Il nostro tentativo è quello ancora più difficile di portare in italiano la traduzione di Lova dall’originale malgascio. Questo il testo, con traduzione a fronte della versione in inglese.

Foolish Flower (Vonikazo adaladala)

Foolish Flower, Fiore matto,
Oh mindless flower Oh fiore insensato
Trying to grow on your own Da solo vuoi crescere ostinato
On a dried-up ground Su questo terreno inaridito
All around you have come and gone Per ogni luogo sei andato e ripartito
All have gone to sleep E ora sono tutti addormentati
Yet here you are, blooming away Eppure sei qui che continui a fiorire
There is also this crazy heart E c’è anche questo cuore pazzo
that does not know how to let go che non sa come lasciar andare
When all signs have gone silent Quando intorno tutti i segni si spengono
It keeps on hoping, believing Continua a sperare, a credere
It cannot help reminiscing Come puoi smettere di ripensare
about that long lost love a quell’amore da tempo perduto
that still lives in our hearts. che il cuore nostro abita ancora
and keeps us awake and alive e ci tiene svegli e vivi

La versione musicale che ne ha ricavato il cosiddetto ‘Bob Dylan malgascio’, Erick Manana, insieme alla cantante Aina Quash, si può ascoltare nel video che segue.

Immagine anteprima YouTube

Invece, Elie Rajoanarison, scomparso il 27 novembre scorso era tra i giganti della cultura nazionale e tra le altre cose aveva tradotto nella sua lingua Jacques Prévert. Artista poliedrico, aveva poi ricoperto anche alcuni importanti incarichi politici, tra cui quello di segretario generale al Ministero della Cultura del Madagascar. Molto amato dai blogger locali, in un’intervista curata da Pierre Maury durante la sua partecipazione a un workshop di scrittori nello Iowa nel 2002, così Rajoanarison aveva esortato gli scrittori malgasci a partecipare alla vita del mondo e ad uscire dalla propria insularità:

La maggior parte dei Paesi qui presenti [all'IWP workshop] si sforzano di tradurre le proprie opere, di integrarle nel circuito culturale del nostro tempo. La nostra situazione insulare non dovrebbe essere percepita come negativa. Al contrario. Abbiamo l’opportunità di avere allo stesso tempo il senso sia del radicamento sia del viaggio, come tutti gli isolani. L’indagine sull’identità è stata ben avviata, e deve continuare a interrogarci. Ma adesso è ora di “viaggiare”. Ora è tempo di farci vedere e di vedere verso qualche altra parte, in poche parole: è arrivato il momento di esistere! Di conquistarci un posto nella mappa letteraria del mondo. Abbiamo tutte le carte in regola per vincere questa scommessa: una letteratura ben affermata scritta nella nostra lingua nazionale che continua a produrre, una padronanza del francese di cui la nostra intellighenzia si è opportunamente appropriata, il dono naturale dei malgasci di imparare le lingue, con particolare riguardo per l’inglese, uno sviluppo della tecnologia informatica di cui la gioventù urbana fa avido uso, ma che si estenderà a breve anche a tutte le classi sociali e a tutti i gruppi religiosi. Molte risorse, molte occasioni che abbiamo ora per trasformarci traducendo le nostre opere in lingue straniere perché il Mondo ci aspetta e ha bisogno anche di noi per esistere.

Entra in vigore il test di italiano per gli immigrati: strumento di integrazione o barriera?

Giovedì 9 dicembre è entrato in vigore il decreto del Ministero dell’Interno del 4 giugno 2010 che introduce il test di italiano per gli stranieri, come parte del cosiddetto “permesso di soggiorno a punti”. L’esame riguarda per ora solo gli immigrati che intendono richiedere il permesso di soggiorno CE di lungo periodo, ottenibile da chi risiede in Italia da almeno cinque anni. Per i neo-arrivati è invece ancora in bozza il cosiddetto “accordo” di integrazione, che in realtà sarà misura obbligatoria basata sulla conoscenza della lingua e altri elementi quali educazione civica, percorsi di istruzione e formazione, un contratto di locazione o altro. L’accordo durerà due anni, durante i quali l’immigrato dovrà raggiungere la quota di 30 crediti, a partire da un monte crediti iniziali di 16. I provvedimenti erano già stati annunciati nel pacchetto sicurezza approvato nel luglio 2009.

L’iter previsto per la realizzazione del test di italiano è il seguente: l’immigrato presenta, con modalità informatiche, la richiesta di partecipazione al prefetto; entro sessanta giorni verrà convocato dalla prefettura per lo svolgimento della prova, previa identificazione del richiedente. Il test verrà condotto in un CTP (Centro Territoriale Permanente per la formazione degli adulti) il quale, nel frattempo, avrà dovuto definirne le linee guida elaborate dagli enti certificatori (per ora sono 4 in tutta Italia). Tale esame non sarà dunque uniforme sul territorio nazionale bensì differenziato secondo le scelte attuate dai singoli CTP. Il livello di conoscenza richiesto corrisponde al livello A2 del Quadro comune europeo, equivalente a una conoscenza minima della lingua, quanto basta per capire e farsi capire per strada o sul lavoro, e per riuscire a scrivere testi brevi e semplici.

L’evidente complessità burocratica andrà a pesare non poco sugli immigrati destinatari del provvedimento, i quali sono peraltro già oggi sottoposti a una procedura faticosa per ottenere il permesso di lungo periodo, mentre i costi non potranno che aumentare. La legge presenta peraltro diversi aspetti organizzativi e importanti dubbi, ancora da chiarire. Abbiamo chiesto un parere in merito al coordinatore della Rete Scuolemigranti (rete di scuole del volontariato con sede a Roma) Augusto Venanzetti, che indica come elementi critici i seguenti:

– La procedura informatizzata (straniero che compila la domanda via internet) va supportata con l’intervento degli enti di patronato, un po’ come succede con i decreti flusso;
– Gli Uffici Scolastici Regionali devono fare una verifica al loro interno per stabilire quali CTP siano in grado o disponibili a diventare sede di test. Le sessioni dovrebbero essere quasi una al mese e l’impegno non è da sottovalutare. Nonostante questa procedura sia finanziata, non lo è al punto di consentire nuove assunzioni, e la carenza di personale sarà condizionante. La situazione nelle grandi aree urbane sarà più agevole, ma in alcune province sarà un problema e c’è il ragionevole rischio che alcune aree restino scoperte;
– Sui CTP si andrà convogliando una domanda molto sostenuta, e graverà soprattutto la richiesta di corsi. Finora i Ministeri si sono preoccupati solo di assicurare lo svolgimento dei test e nessuno ha pensato ai corsi di preparazione (che non sono finanziati). Invece il problema sarà di sistema e le due cose vanno correlate. E qui parliamo ancora degli stranieri che intendono richiedere la Carta di Soggiorno di lungo periodo. Quando rifluiranno nella procedura anche i nuovi ingressi (decreti-flusso), la pressione per iscriversi ai corsi sarà notevole.

Va anche considerato che sarà difficile stabilire dei criteri di valutazione oggettivi, data la non uniformità a livello nazionale. Inoltre, quanti hanno già ottenuto il livello A2 presso un’associazione non vedranno riconosciuta tale qualifica (art.4 del decreto), scelta davvero penalizzante nei confronti di quelle realtà che su tutti i territori si impegnano quotidianamente a favore dell’integrazione dei migranti.

Scuola di italiano per migranti. Foto di Silvia Cicconi

Oltre a dubbi specifici, non convince il valore di integrazione e accoglienza della normativa. Non è la prima volta che l’attuale governo introduce novità legislative che, prese neutralmente, potrebbero essere condivisibili ma, per come vengono proposte e organizzate, paiono soprattutto di valore simbolico e orientate alla discriminazione degli stranieri. Secondo Venanzetti:

La normativa sul test, che non è scaturita da un piano di politiche dell’integrazione ma – come noto – dal ‘pacchetto sicurezza’, nato con ben altre finalità, ha finito per prevedere un meccanismo selettivo e costrittivo, del tutto privo di un respiro di interculturalità, di percorsi virtuosi di inserimento. Oltretutto anche contraddittoria con i dati: l’ultimo Rapporto Censis rivela che l’85% degli immigrati soggiornanti ha una conoscenza buona o soddisfacente della lingua. Nessuna emergenza, dunque, ma solo una carenza di offerta formativa di corsi sulla quale invece non è stato previsto nulla. Negli altri Paesi europei (il 53% del Consiglio d’Europa) sono state messe a disposizione risorse che consentono anche fino a 600 ore di corsi gratuiti (Germania e Francia su tutte).

In effetti – e si veda anche la composizione degli ingressi nel nuovo decreto flussi recentemente approvato – la gran parte dei lavoratori immigrati sono colf, badanti, baby sitter o comunque operatori del commercio o dell’industria già assolutamente in grado di capire e farsi capire, anche perchè presenti in Italia da almeno 5 anni. In realtà il test comprende una prova scritta, e questo viene ritenuto un forte ostacolo al superamento per molti migranti. Perchè allora, in un’autentica logica di integrazione, non corredare il decreto con l’istituzione di fondi per corsi di italiano? In questo modo il decreto rappresenterebbe un riconoscimento del valore degli immigrati, risorse insostituibili per il futuro di un sistema altrimenti destinato al declino economico e sociale.
In un’ottica propositiva, Venanzetti conclude fornendo alcune indicazioni per agevolare il processo nel futuro:

– La messa a disposizione di risorse (dagli enti locali, dai fondi europei) per consentire la realizzazione di corsi di preparazione, anche con meccanismi a scalare in modo da effettuarli a ciclo continuo durante l’anno;
– La realizzazione di protocolli d’intesa sul territorio, tra enti locali, scuole pubbliche, scuole del volontariato, comunità straniere, imprenditori, organizzazioni sindacali, per concordare azioni formative, luoghi e orari accessibili per lo svolgimento dei corsi (anche serali e ricorrenti);
– La configurazione di una visione di sistema (oggi decisamente carente e sperequata), nella consapevolezza che il processo di inclusione degli immigrati richiede una serie di azioni interrelate, sulle quali far intervenire una pluralità di soggetti.

L’intervista integrale ad Augusto Venanzetti è disponibile qui.

(Articolo scritto per Voci Globali – http://vociglobali.it)

Un condivisibile auspicio per ebrei e palestinesi

Scrive Sergio Della Pergola (da Moked, "Cinque idee per sognare in ebraico"):

Il primo sogno che vorremmo allora augurare si avverasse per gli ebrei italiani sarebbe che di loro si parli meno, e che magari, se proprio se ne deve parlare, lo si faccia con migliore cognizione di causa.
 
Personalmente coltivo questo sogno con riferimento alla questione (ebraico/)israelo-palestinese nel suo complesso, ostaggio delle pulsioni politiche e delle schizofrenie mediatiche.

 —————————————-

Ne approfitto per segnalare che ha avuto luogo la prima riunione del movimento Jcall (l'"Appello alla ragione" promosso da personalità ebraiche europee di primo piano, di cui rilancio le motivazioni) tenutasi a Parigi il 6 ottobre scorso: qui un video che riassume l'incontro.  

Riporto inoltre alcune loro condivisibili considerazioni sul recente incendio del Monte Carmelo:

"Like everyone in Israel, we were shocked and saddened by the fire that devastated Mount Carmel for four days, took 42 lives, destroyed more than 250 homes and burned 10,000 acres of forest. The toll is astounding. In Israel, it is now time to concentrate on finding out where the responsibility for this terrible event lies, and on plans for reconstruction.
For our part, we would like to make two remarks.
First, that this catastrophe revealed a severe lack of means for fighting fires in Israel. Listening to Interior Minister Elie Yishai, in charge of the management of the fire-fighters, declaring in his defence that one million NIS were allocated this year to the operating budget for fire control is ridiculous when compared to the billions of dollars invested in the Occupied Territories. This catastrophe highlighted once again the order of priority that Israeli leaders have been following for years.
Second, in order to extinguish the wildfire, Israel was obliged to call for foreign aid. We were able to witness, in the skies above Mount Carmel; a ballet of Turkish, American and Russian planes flying together, alongside planes from the 20 other countries who answered the Israeli Prime Minister’s call for help. This was the best proof that the “Everyone is against us” argument, too-often used in Israel, is not true. To see, on the ground, Israeli firemen fighting alongside Palestinian firemen from the Palestinian territories is a strong sign of what cooperation between these two entities could look like when a Palestinian state finally comes into existence. "